Si chiama “Dallunoallundici – Storie di ordinaria calciofilia”, il nuovo libro di Emanuele Giulianelli, che ripercorre, in alcune pagine, il mito del Licata di fine anni 80, raccontato da un protagonista.

La prefazione del libro è stata scritta da Roberto Beccantini.
“Emanuele Giulianelli è un ficcanaso – scrive Beccantini -. Gli piace lo sport, i racconti che giacciono nelle sue sognanti miniere. Lo attraversa una vena di romanticismo che, di questi tempi, non disturba. Si muove lontano dal circo che imperversa e fa strage di luoghi comuni. Al rango di cantore preferisce il ruolo di cacciatore, più scomodo ma, soprattutto, più eccitante.
Ho letto la sua ultima opera, «Dallunoallundici, storie di ordinaria calciofilia». La passione che affiora non è posticcia. L’autore ci parla di personaggi, di squadre, di partite che non appartengono, necessariamente, al podio della visibilità. Non tutti e non tutte, almeno. Ed è proprio questo esercizio che rende i capitoli pieni di cose, di rimandi. Al centro del villaggio, tanto per parafrasare Rudi Garcia, Emanuele ha collocato il cuore dei personaggi, l’indole del gruppo, il fulcro dell’episodio; non più o non solo il frastuono dell’enfasi, la melassa della propaganda un tanto al chilo.
Giulianelli parte da uno svedese di Bergamo, Glenn Peter Stromberg, per arrivare a un quartiere della stessa città, Boccaleone e il suo oratorio. Il viaggio tocca Liverpool e il tempio di Anfield, scrigno di un’impresa alla quale il destino invitò anche il sottoscritto. Liverpool uno, Genoa due. Era il «Grifo» di Osvaldo Bagnoli: prima squadra italiana a espugnare la tana dei «Reds».
L’epopea del Castel di Sangro e del Licata, che annoverò Zdenek Zeman tra le eretiche micce. La saga di Lorenzo Pinamonte: dalle sirene inglesi al Lumezzane e ai primi calci di un certo Balotelli Mario. Poi le fiabe di Andorra e San Marino, simboli di un calcio che non guarda alle differenze, ma proprio da queste trae l’energia per gridare «Fermi tutti, ci siamo anche noi».
«L’autografo nel portafogli» è forse la nicchia più suggestiva. Emanuele confessa la cotta presa per un centrocampista serbo: Ivan Tomic. Giocò nella Roma ai tempi di Zeman e Fabio Capello. Prometteva molto, raccolse poche presenze, non ebbe fortuna. O meglio, una sola: quella di trovare un tifoso votato tutto, o quasi, al suo culto. Emanuele. Che, ripeto, non è un bracconiere dell’ovvio. Ai profumi preferisce i sapori. Ai
megastore di ultima generazione, le botteghe di una volta.
Non è lo stile, qui e là scolastico, a marchiare il libro. Sono i contenuti. Sono le emozioni. Giulianelli punta dritto al nocciolo delle persone, e del mondo che vi ruota attorno, fregandosene delle bollicine. Bandiere di Andorra e San Marino, Ildefons Lima e William Guerra sono coloro che, più e meglio di tutti, animano l’idea che ha spinto Emanuele a uscire dalla banalità dei vip. A ognuno il suo, certo. Nessuno discute le gerarchie scavate dal talento, e nemmeno il diritto del fuori-classe. Ecco: qui ci si muove, e di parecchio, dentro-classe, a livelli non proprio raffinati o straordinari, alla periferia di ogni periferia.
Nonostante questo, o proprio per questo, lo spirito rimane forte, saldo. Come documenta il succo delle carriere di Lima e Guerra. «Platini non ha giocato a Wembley, noi sì». Il primo a sorriderne – di gusto e non di sarcasmo – sarà proprio Michel”.

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